Gioco Dunque Sono #1
“Gioco Dunque Sono” è una rubrica aperiodica che raccoglie pensieri, ricordi e opinioni di un giocatore sulla trentina ancora oggi ossessionato dai giochini elettronici. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratti di una scusa per riempire buchi editoriali con esternazioni o farneticazioni nostalgiche di un vecchio. Ecco, appunto…
Mio nonno era un tipo all’antica. Sapete di quelli che hanno sempre nutrito sincera ammirazione per il Ventennio del fascismo. D’altronde come dargli torto – era nato e cresciuto sotto il Duce – perciò sin da bambino toccava sorbirmi i racconti delle sue esperienze e annessi insegnamenti. Erano stati giorni difficili per lui, i suoi fratelli e sorelle, giornate vissute tra privazioni e sudore quotidiano per riuscire a portare qualcosa in tavola. Però – e qui entriamo nel meraviglioso mondo dei luoghi comuni e frasi fatte – “Si stava meglio quando si stava peggio”. Poi, al termine del suo monologo, mi regalava diecimila lire senza però prima avermi strappato la promessa che li “avrei conservati in un salvadanaio per i momenti di bisogno”.
Ora io non so perché ho voluto iniziare l’articolo col ricordo di mio nonno – pace all’anima sua – né tantomeno se arriverò a campare sino alla veneranda età di 95 anni ma sento comunque il bisogno di guardarmi un attimo indietro e rivangare il mio passato (quello videoludico) raffrontandolo a oggi.
Quando io ero bambino c’erano computer e console. Potevi giocare ai videogiochi, proprio come adesso. Quando io ero bambino però era tutto più semplice: accendevi il televisore/monitor, l’apparecchio ad esso collegato, e prima (o dopo) la precedente operazioni inserivi il floppy disk (oppure la cassetta, o la cartuccia). Tutto qui. Semplice, veloce, non serviva altro. Oggi invece no: devi attendere l’installazione del gioco (oppure dell’aggiornamento), assicurarti di non avere problemi di connessione a Internet, aspettare altri minuti affinché ogni giocatore nella lobby del tuo sparatutto multiplayer preferito sia pronto e altre rotture assortite.
Quando io ero bambino con le diecimila lire di mio nonno ci potevi comprare diverse cose: il dischetto di un videogioco oppure una rivista di videogiochi (a volte entrambi), sempre dall’edicolante di fiducia. Vedete, reperire un titolo già disponibile sul mercato non era poi così difficile. Anzi, era una trafila semplice, quasi un rito religioso che ti metteva in contatto con altri appassionati del tuo hobby, coetanei che in pochi minuti muniti di un doppio disk-drive e l’X-Copy ti sfornavano una nuova copia del gioco tanto desiderato, la tua copia. Con l’etichetta e calligrafia che appartenevano solo a te. A volte persino piccoli disegni ornamentali. Erano gli anni d’oro della pirateria. Oggi invece no: con cinque euro ci compri a malapena una delle (poche) pubblicazioni in edicola – se sei un nostalgico – ma di sicuro non un titolo retail uscito nell’ultimo anno. Al massimo quelli dei cestoni oppure i giochi disponibili in digital delivery su qualsivoglia negozio online.
Quando io ero bambino le riviste di videogiochi erano grandi, voluminose, colorate e piene zeppe di pagine di pubblicità di negozi di computer e console. Nuove realtà perlopiù del centro-nord, che vendevano giochi, periferiche e tanta altra roba anche per corrispondenza. Roba che difficilmente un pargoletto di dieci anni avrebbe mai e poi mai trovato nella sua città natale. Tutto questo mi permetteva di fantasticare, pensando che forse un giorno avrei potuto permettermi i fantastici giochi e console tanto bramati. Le riviste di videogiochi erano degli stupendi cataloghi e ancor di più lo erano quelle pagine d’inserzioni pubblicitarie. Dei cataloghi nei cataloghi. Sfogliando le pagine di un ZZAP!, TGM e K sino a consumarle scoprivo titoli – anche vecchi – che ignoravo ma desideravo assolutamente di giocare, joystick in mano. Oggi no, il progresso e la rete ci permette di conoscere vita, morte e miracoli di un’IP mesi o addirittura anni prima che essa venga effettivamente rilasciata sul mercato. E se non siamo del tutto convinti quando arriva il fatidico giorno ci limitiamo a guardare i video di let’s play su YouTube e Twitch usciti da lì a breve.
Quando io ero bambino i giochi erano difficili, la sfida consisteva nell’arrivare sino in fondo, l’unico, autentico obiettivo/trofeo era di portarlo a termine. Se rimanevi bloccato era colpa tua: – e non dei bug del gioco – o eri scarso oppure non conoscevi bene la lingua inglese per risolvere un enigma. C’era ben poco da fare: provare e riprovare. Ore, giorni, settimane, mesi. Quando eri fortunato scoprivi ricorrevi al “trainer” all’avvio del gioco, utilizzavi una gabola o soluzione letta sulle pagine della tua rivista di videogiochi preferita, chiedevi una dritta ad un amichetto oppure facevi di nascosto una telefonata interurbana a qualche redazione. Oggi no: i giochi ti conducono per mano sino alla fine, ti istruiscono su quello che devi fare, ti dicono quando e dove farlo, ti coccolano. Non ti puniscono mai – salvo pochissime eccezioni – ti danno appena un buffetto sulla guancia se sbagli perché tanto l’hai pagato e in qualità di consumatore ti deve piacere sino all’ultimo momento. E quando proprio sei bloccato e ne hai fin sopra i capelli puoi sempre ricorrere GameFAQs o YouTube. O al peggio metti da parte il gioco e passi al prossimo della pila degli arretrati, del tuo backlog.
Quando io ero adolescente incominciai a comprare i videogiochi in due tipologie di luoghi: i piccoli negozi e i marocchini. Nei primi scoprivi l’esistenza dei mitologici “giochi originali”, tutti corredati da scatoloni con all’interno il gioco (e nel caso di quelli per gli home computer come il Commodore Amiga incominciavano ad esserci tanti floppy disk), il relativo manuale – che a malapena sfogliavi una sola volta, abituato com’eri a cavartela da solo (tranne quelli Nintendo che, ancora pieni di quell’innocenza giocattolosa ti elencavano tutti i nemici del gioco corredati da splendide illustrazioni) – insieme a eventuali orpelli per te del tutto inutili: stupidi gadget e inusuali nonché tanto temuti e odiati sistemi di protezione.
I pusher etnici vendevano – come era lecito aspettarsi – roba contraffatta, ma pur sempre simile all’originale: bustine con la copertina stampata (a volte a colori, altre pure sul cd-rom). Uscivi da scuola, provavi a contrattare sul prezzo dei giochi (perché costavano sempre intorno alle fantomatiche diecimila lire) e nel giro di poche ore – se la sfiga era con te – tornavi per fartelo sostituire poiché il supporto era difettoso. Ah, i Princo! Oggi no, oggi ci sono le grandi catene. Con i loro prezzi, le loro offerte e leggi di baratto: porti indietro dieci giochi vecchi, un rene e l’usufrutto sulla casa di tua nonna per comprarti un videogioco nuovo. A circa una ventina di euro, che sono ben più di diecimila lire. Le scatole – esistono ancora – ma sempre di rado trovi il manuale all’interno e se proprio vuoi della paccottiglia cinese a corredo devi chiedere la “Collector” oppure la “Limited”. Quest’ultima a volte lo è davvero, nel senso che se non l’hai ordinata prima – ennesima moda dei nostri tempi – te la puoi scordare. I venditori marocchini sono ormai quasi tutti estinti, al loro posto se vuoi risparmiare (e hai un PC discreto) ti rivolgi a Steam, GOG, Origin, o servizi analoghi che per pochi euro – a volte pure al corrispettivo di diecimila lire o poco meno – ti permettono di scaricarti il gioco dai loro server, con annessi DRM (i sistemi anti-pirateria di oggi) a seconda dei casi.
Quando ero bambino e adolescente il videogioco era quello che stringevi tra le tue mani: uno o più floppy, una cassetta, una cartuccia, uno o più cd-rom. Al massimo in casi sporadici entro un anno usciva un data-disk, un’espansione che comunque richiedeva il gioco originale per essere fruita. Oggi invece no, è l’opposto. Quello che hai appena comprato è sì il gioco, o quantomeno la ciccia. Le parti magre e di scarto – le frattaglie – che esistevano anche allora ma venivano buttate – oggi te le rifilano a parte. Se le vuoi paghi. È l’era dei videogiochi a trancio, dei DLC. Ci sono persino giochi che vengono rilasciati a cadenza (a)periodica, come i telefilm di una volta. Siamo al paradosso, sembra quasi che sviluppatori e publisher (perché a differenza di una volta non li chiamiamo più tutti erroneamente “programmatori”) taglino di proposito contenuti per rivenderteli a parte. Capisco che c’è la crisi, ma qui si esagera!
Quando ero bambino il videogioco “piccolo”, scollegato dal televisore e che potevi portare ovunque con te si chiama “schiacciapensieri” – da non confondere con lo strumento musicale siculo privo di “hi” nel nome – e aveva un solo gioco. I Game & Watch prima, i GIG Tiger dopo. Tutti emettevano cicalini infernali. Quando ero già adolescente arrivarono le prime console portatili. Alcune a colori, altre monocromatiche – come la mia (nel senso di possesso, non di esperienza) console Nintendo, il GameBoy – con giochi intercambiabili su cartucce e accessori più o meno avveniristici nonché poco pratici. Oggi sì, le console portatili ci sono ancora – tutte a colori – sebbene l’autonomia sia a volte inferiore e l’ergonomia non abbia fatto passi avanti. Alcuni di questi dispositivi non si chiamano più console e il gioco non rientra nemmeno nella mansione principale: sono i cellulari, gli smartphone e i tablet.
Quando ero bambino giocare insieme significava prima di tutto che uno solo usava la periferica di controllo, gli altri contemplavano oppure commentavano. Se il gioco lo prevedeva e avevi due joystick, si giocava effettivamente in due. Seduti accanto, nella stessa stanza. Quando ero già adolescente si continuava a giocare insieme nella stessa stanza, a volte persino in quattro, se avevi multitap e controller. Se invece eri un nerd costringevi i tuoi amici a portarsi appresso il loro computer composti da pesantissimi case – e a volte facevi altrettanto – per organizzare il più bel LAN party di sempre, perché contava divertirsi tutti con gente che conoscevi. Tutti rigorosamente maschi. Oggi no, si gioca sempre – e a volte esclusivamente – insieme, ciascuno comodamente seduto a casa propria. E poco importa se siamo davvero amici, compagni o avversari raccattati in rete da un algoritmo di matchmaking. L’importante è avercelo più lungo degli altri, e mettercelo nel didietro agli altri. Il concetto di divertimento è cambiato: sbraitare ad alta voce, bestemmiare, insultare familiari e cercare in tutti i modi di costringere gli altri all’abbandono del gioco. Solo questo conta. Non importa se ci sono anche (poche) ragazze. Solo questo farò ad oltranza. Almeno finché i server saranno in funzione…
Quando ero bambino i bar avevano i giochi più fichi. Roba che nessuno si sarebbe immaginato un giorno eguagliata dalla controparte casalinga. Con diecimila lire ci potevi giocare anche un pomeriggio intero – sempre che non trovavi i cabinati occupati dai ragazzi più grandi – e consumare pure gelati e bibite. Quando ero adolescente questi posti si erano evoluti in sale giochi. C’erano molti più cabinati, più grossi e con riproduzioni di veicoli e altre diavolerie tecnologiche. Oggi purtroppo no. Le sale giochi hanno quasi tutte chiuso e nei bar trovi slot machine e videopoker. Un tipo brutto di gioco, quello d’azzardo. Per non parlare della gentaglia che li frequenta.
Quando ero bambino i videogiochi a scuola erano considerati passatempi, negativi perlopiù. Niente che potrà aiutarti a fare qualcosa di buono nella vita – dicevano i professori. Oggi invece no, sono i ragazzi insieme ai professori a perdere tempo dietro ai corsi di game design.
Quando ero bambino i videogiochi erano creati – sebbene non ne ero sulle prime cosciente – da una, due o comunque pochissime persone (i “programmatori” di prima) che ricoprivano più ruoli in contemporanea, alcuni non lo facevano di mestiere e incominciavano – e portavano pure a compimento – lo sviluppo del gioco in perdita, con le loro misere risorse. Oggi ci sono i publisher, c’è chi investe parecchio denaro dietro ancor prima che si avvii il progetto, c’è chi non vuole assolutamente muovere un dito senza andare in perdita e promuove campagne su Kickstarter. E si trova a volte tarpata la propria creatività da qualcun altro o dalle leggi di mercato. Se non ti sta bene ciò e provi ad andare controcorrente facendo come una volta, sei un “indie”.
Quando ero bambino e poi giovane adolescente cercavo di conservare gelosamente tutto con cura perché credevo che un domani – nel lontano futuro – avrei potuto rigiocare a qualcosa del mio passato. Oggi a volte lo faccio – se ci sono i mezzi che lo permettono – altrimenti compro la nuova versione “hd remaster” del gioco e non mi sbatto più di tanto.
Quando ero bambino e poi giovane adolescente cercavo disperatamente di trovare qualcuno con cui condividere la mia passione per i videogiochi. Anche se ciò non mi rendeva affatto popolare a scuola e nel quartiere. Ne parlavo con qualche amichetto, a volte con coetanei estranei, scrivevo e inviavo per posta letterine alle riviste. Oggi invece no, basta un clic e tutto viene condiviso sui social network. Un pensiero, un’immagine, un video di gameplay. E se non mi basta posso aprirmi un podcast o realizzare una serie di video su YouTube per parlarne con la gente. A te che hai avuto la pazienza – e il coraggio – di leggermi sin qui ti pongo allora una sola, ultima, fatidica domanda: “Si stava davvero meglio quando si stava peggio?”. Io – a differenza di mio nonno – non ne ho la certezza ma nonostante ciò so che finché il mio corpo me lo permetterà continuerò a giocare e parlare di videogiochi.