Sospensione dell’incredulità
La sospensione dell’incredulità esaminata dal Alex “Gamesbond” Raccuglia
Oggi parliamo della sospensione dell’incredulità nei videogiochi, ma occorra prima fare una piccola digressione, sia storica che semantica.
Il primo videogioco che mi ha emotivamente trasportato nel mondo in cui stavo giocando fu Elite, di David Breaben e Ian Bell. Non so se ve lo ricordate, probabilmente non è nemmeno importante, si tratta però, secondo me, di una delle pietre miliari dei giochi a 8 bit nei primi anni 80.
La grafica era assolutamente spartana ma, altrettanto assolutamente, stratosferica per l’hardware dell’epoca. Si trattava di un gioco di commercio e avventura nello spazio con grafica 3D vettoriale in wireframe. Linee gialle su sfondo nero. Ma quelle linee gialle erano sufficienti a farmi immaginare un universo in cui io potevo viaggiare con la mia nave spaziale.
E adesso veniamo ai giorni nostri: si sono appena concluse due fiere in cui sono state presentate nuove tecnologie nel campo della visualizzazione delle immagini in grafica al computer. Dimostrazioni spettacolari di potenza e capacità di calcolo. Poi, sull’ultima console o sul computer superdopato qualcuno mette su una demo del prossimo gioco in uscita. Tutti a farsi pippe a quattro mani sulla capacità di raggiungere un realismo praticamente fotografico nei motori di rendering.
Tutti a riempirsi la bocca con ombre dinamiche e illuminazione colorata multipunto. Arriva il momento di inquadrare in primo piano la faccia di uno dei protagonisti e… Quella cazzo di ombra sfarfalla nemmeno fosse uno sprite di un gioco per Sega Master System!
Non ci sono mezze misure: quell’ombra sfarfalla e, di colpo, non vedo piu un volto ma una serie di poligoni con delle texture. E persino realizzati male. Non vedo più un personaggio ma vedo un oggetto.
E la mia espressione, molto spesso, è semplice: “ma che cazzo è questa merda?”
Ora, lo ammetto, non sono un giocatore che passa ore e ore ogni giorno ad interagire con il software ludico. Lo riconosco e non me ne vergogno nemmeno tanto. Quello che so è che se vedo un prodotto che, così di colpo, mi sbatte fuori dall’immaginario, dall’immaginifico, dalla mia stessa immaginazione, allora c’è qualche problema. Probabilmente la maggior parte di voi, giocatori hardcore di lunga data, quando ha a che fare con un personaggio con l’ombra che sfarfalla, non ci fa nemmeno caso: è parte integrante del linguaggio (anche se, probabilmente, ad oggi ancora una limitazione tecnica o tecnologica). Per quanto riguarda me, invece, quella fottuta ombra di merda è essenzialmente un problema tecnico che mi fa ricordare che sto giocando ad un insieme di byte e non ad un’esperienza.
Perché io che sono così fuori da questo contesto, quello dei giocatori più assimili, vivo come elemento di frustrazione e di allontanamento tutto ciò?
Lasciatemi fare una piccola digressione… Se siete un musicista alle prime armi che inizia a suonare uno strumento, se iniziate a stonare qualcosa lo riconoscete quasi subito. Ma se per qualche motivo continuate a suonare queste note stonate, dopo un po’ ci fate l’abitudine e diventano parte integrante del vostro modo di interpretare un brano. In parole povere: state stonando ma nemmeno ve ne accorgete più. Poi, magari, fate sentire il prezzo a qualcuno e questo immediatamente storce la faccia: state stonando, non è nemmeno un gioco di parole, qualcosa stona… Oppure, ed è l’esperimento più divertente, se vi registrate e poi vi allontanate e riascoltate la registrazione qualche ora o qualche giorno dopo vi accorgete immediatamente delle stonature.
In pratica se siamo troppo “dentro” ad un progetto non ci accorgiamo più nemmeno dei suoi difetti più evidenti.
Tutto questo mi fa pensare che, spesso e volentieri, il fatto di essere sin troppo “addentro“ fa che le limitazioni tecniche che possono allontanare un giocatore esterno dal gioco stesso divengano praticamente invisibili agli occhi degli sviluppatori.
Il termine tecnico è “sospensione dell’incredulità“, ovverosia lo stato di catarsi in cui si vive un’esperienza trascendendo i limiti intrinseci della stessa. In parole povere: se stiamo giocando ad un gioco che ci piace e ci coinvolge, ad un certo punto non ci ricordiamo più nemmeno che è un gioco ma è un’esperienza qualcosa che va oltre le limitazioni tecniche della stessa. Inseriamo un disco nella console e sappiamo benissimo che su quel disco sono incisi alcuni gigabyte di informazioni. Ma se il gioco “ci prende” diventa un’avventura, una storia, un’emozione non è più mero software.
Ma se, almeno nel mio caso, arrivano quelle ombre del cazzo che sfarfallano nemmeno fossi affetto da epilessia, la sospensione dell’incredulità viene meno e torno a vedere tutta la serie di artifici che i creatori del software hanno utilizzato per produrre il prodotto. E a questo punto vedo un prodotto, non vivo più un’esperienza e viene meno il legame tra me e il gioco: non sono più parte integrante di esso ma sono semplice osservatore.
La cosa che più mi incuriosisce è data dal fatto che fossi molto più coinvolto decine di anni fa giocando ad un gioco in cui lo spazio era rappresentato da linee e punti monocromatici piuttosto che, oggi quando la potenza di calcolo e di elaborazione grafica è arrivata a livelli decisamente impensabili anche solo 10 anni fa. Il termine per descrivere questo si chiama “uncanny valley”, che è il principio secondo il quale più una rappresentazione si avvicina alla realtà (ma senza esserlo) e più ne proviamo replusione.
Io, personalmente, mi sento mio malgrado molto affetto da questo principio, motivo per il quale quando vidi il film Tron Legacy, trovai insopportabili tutte le scene in cui era presente il clone digitale di Jeff Bridges. E quello era un film che è costato quasi 200 milioni di dollari, quasi tutti di impianto estetico degli effetti digitali. Mentre noi, giocatori, abbiamo a che fare con oggetti realizzati in tempo reale senza la possibilità di arrivare a livelli di realismo come quelli dei film.
Ma torniamo a noi: sei uno sviluppatore di un videogioco e, dato che lo fanno tutti gli altri, sei obbligato anche tu a infilare nel tuo piccolo capolavoro quella merdosissima ombra che sfarfalla. La mia domanda è semplice: perché? Perché un’ombra fatta male è meglio di nessun’ombra? Perché mi sento una mosca bianca, una voce fuori dal coro quando chiedo a voce alta “ma perché devi per forza metterci quella cazzo di ombra che a me dà solo fastidio?”. Anzi no, scusate, “dare fastidio” non rende bene l’idea, il termine corretto sarebbe “è una merda”.
Adesso lo chiedo a voi, giocatori di lunga data: a voi quella cazzo di ombra di merda non dà fastidio? Non vi fa schifo? Ma, soprattutto, non vi ricorda continuamente che state guardando qualcosa di finto, di artefatto e non state vivendo invece un’avventura in prima persona?
Qual è il segreto per il quale riuscite a sospendere la vostra incredulità e a vivere queste esperienze come se, appunto, fossero esperienze e non solo dei giochi?